Viviamo in un’epoca che teme le emozioni, censura la fragilità e confonde il controllo con la forza. Per ritrovare umanità, serve un’educazione al sentire.
Viviamo in un’epoca in cui provare un’emozione è diventato sospetto. Mostrare fragilità è visto come segno di debolezza, manifestare rabbia o tristezza come qualcosa da reprimere, non da comprendere. È così che la società contemporanea, nel tentativo di “controllare” il sentire umano, si sta progressivamente disumanizzando. Ciò che non si esprime, si corrompe dentro, e ciò che si corrompe dentro finisce per esplodere fuori, in forma di violenza, apatia, odio o indifferenza. È qui che nasce la vera barbarie del nostro tempo: la barbarie emotiva.
Siamo immersi in un mondo iperconnesso, ma interiormente isolato. Il digitale ha dato voce a tutti, ma ha tolto profondità alla parola. Le emozioni, quando emergono, devono essere “funzionali”: sorrisi per i selfie, indignazione per i trend, rabbia per i like. Nulla che implichi vulnerabilità autentica. In questo scenario, esprimere ciò che si prova è diventato un atto rivoluzionario – e per molti, un rischio.
L’uomo moderno, direbbe Jean-Paul Sartre (filosofo francese e padre dell’esistenzialismo), fugge dalla propria libertà perché essa lo obbliga a sentire, scegliere, esporsi. Ma una società che teme le emozioni è una società che ha smarrito il contatto con la vita. Quando l’affettività viene censurata, la violenza si moltiplica. Quando il desiderio è negato, diventa dominio. Quando la tristezza è taciuta, esplode in depressione o rancore.
Eppure, di fronte a questa crisi del sentire, la risposta politica è stata un passo indietro. Nelle ultime settimane, il governo ha approvato in Commissione Cultura un emendamento che limita fortemente i percorsi di educazione sessuale e affettiva nelle scuole. Nelle primarie e nelle medie è stato di fatto vietato parlarne; alle superiori sarà possibile solo con consenso scritto dei genitori. Una misura che molti hanno letto come tutela “dei valori familiari”, ma che nei fatti rappresenta un impoverimento culturale e civile.
Negare ai giovani un’educazione emotiva e relazionale significa lasciarli soli, preda del mondo digitale che li educa – e li plasma – attraverso pornografia, modelli tossici di virilità, sessualizzazione precoce e relazioni prive di empatia. In un Paese in cui ogni settimana si piangono nuove vittime di femminicidio, questa scelta politica non è solo miope, è irresponsabile. Perché l’unico antidoto reale alla violenza è la conoscenza di sé, dell’altro e dei propri limiti: ciò che si impara solo attraverso un’educazione affettiva matura, non attraverso la censura.
Educare alle emozioni (dal latino educere, cioè “tirar fuori”) non significa “indottrinare”, ma fornire strumenti per riconoscere la rabbia, distinguere il desiderio dal possesso, comprendere la paura e la vulnerabilità come elementi costitutivi della vita umana. È costruire cittadinanza emotiva.
Oggi, la barbarie non si manifesta più solo nei gesti brutali, ma nell’incapacità di sentire empatia, di ascoltare, di prendersi cura. Abbiamo smarrito il coraggio di sentire, e con esso la capacità di capire l’altro.
Se vogliamo invertire la rotta, dobbiamo restituire dignità alle emozioni, riportare i giovani dal mondo digitale al mondo della vita – quello dove si sbaglia, si ama, si soffre, si cresce. Solo così potremo uscire dal deserto emotivo che chiamiamo modernità e tornare, finalmente, alle cose stesse – a ciò che sentiamo, a ciò che siamo – per tornare a essere, semplicemente umani. Giuseppe Foti



























