Inclusione: non una passerella, ma una promessa

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Disabilità - Sedia a rotelle

Basta una foto sul palco, una sedia vuota accanto al microfono, un hashtag bene piazzato: la parola inclusione ha imparato a vestire di luci. Ma le luci passano. Quello che rimane, o che dovrebbe rimanere, sono le vite di persone reali, le loro attese, i loro diritti. Se la parola diventa solo immagine, tradisce chi da quell’immagine dovrebbe trarre vita più dignitosa. 

Quante volte, nelle campagne elettorali o nelle conferenze, l’inclusione viene sfilata come accessorio?  È comodo: rassicura, migliora la foto, fa bella figura sui manifesti. Ma l’inclusione non è un trucco di scena: è un lavoro quotidiano, faticoso e lento. È accompagnare una persona al primo giorno di lavoro; è rendere una scuola davvero accessibile; è ascoltare chi vive fragilità e seguirlo nelle scelte che lo riguardano.

Eppure, c’è un ostacolo più profondo, che nessuna legge da sola può superare: lo sguardo con cui la società vede la fragilità.

Un paziente psichiatrico diventa “il malato”Una persona con disabilità diventa “quello sulla sedia a rotelle”. Un migrante diventa solo “lo straniero”

Quando riduciamo le persone alla loro condizione, cancelliamo tutto il resto: le passioni, i talenti, le relazioni, i desideri. In questo modo, l’inclusione diventa impossibile. Non si puòincludere davvero chi è visto solo come “altro” o come “meno”.

Lo dimostra, con forza e amarezza, anche una vicenda recente a Reggio Calabria: una madre che ha raccontato pubblicamente l’esclusione del figlio da un’attività sportiva solo perché considerato “disabile”La sua denuncia, ci ricorda che l’inclusione non si misura con dichiarazioni di comodo, ma nella possibilità concreta per un bambino di correre, giocare, crescere insieme agli altri. Non c’è passarella che tenga di fronte alla realtà di un minore a cui vienenegata una delle esperienze più formative: lo sport come luogo di socialità e libertà.

L’inclusione autentica, invece, nasce da un cambiamento culturale: dal riconoscere che la fragilità non è un difetto da correggere, ma una delle forme della complessità umana. Non è un ostacolo alla cittadinanza, è parte della cittadinanza stessa.

Significa spostare lo sguardo: dalla carità alla dignità, dall’etichetta alla persona, dal pietismo al riconoscimento.

Per trasformare la parola in pratica servono scelte precise. Innanzitutto, partecipazione: chi è interessato deve esserci fin dalla progettazione, non relegato a un ruolo simbolico. La co-progettazione evita che le soluzioni siano fatte “per” ma non “con”.

Poi servono risorse stabili: non fondi una tantum per una campagna, ma percorsi finanziati che durino e producano risultati. Infine, misurazione e responsabilità: bisogna poter controllare quello che si promette, valutare l’impatto e correggere la rotta quando non funziona.

Non chiedo gesti simbolici. Chiedo impegni misurabili: politiche che prevedano la co-progettazione, finanziamenti a lungo termine, indicatori pubblici di impatto, sanzioni per chi promette e non mantiene. Chiedo anche un cambiamento nello sguardo di ciascuno di noi, perché senza consapevolezza collettiva ogni politica resta vuota.

L’inclusione deve tornare a essere un verbo che si declina nelle pratiche quotidiane. Non è un’etichetta da apporre sui più fragili per farsi belli; è la promessa che facciamo a chiunque rischi di restare fuori: ti vediamo, ti ascoltiamo, costruiremo insieme una strada perché tu possa camminare con dignità.

Giuseppe Foti

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