Operazione Mauser, le dichiarazioni della collaboratrice Giuseppina Multari

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Di seguito le dichiarazioni della collaboratrice di giustizia Giuseppina Multari rese in data 2 ottobre 2006, e riportante nell’ordinanza di custodia cautelare emessa nell’ambito dell’Operazione Mauser.

“Sono la vedova di Cacciola Antonio, deceduto il 13.1 1.2005 per suicidio. Sono stata io a redigere la lettera che poi mio padre ha consegnato ai CC e che mi viene stasera esibita in visione. Effettivamente conducevo vita da segregata presso l’abitazione in cui ero domiciliata unitamente a mio marito e che è ubicata nello stesso stabile dove dimorano i miei suoceri, mio cognato Vincenzo coniugato con Oppedisano Jessica, mio cognato Gregorio, celibe e mia cognata Cacciola Maria coniugata con Sorbara Giuseppe. Un ultimo fratello di mio marito di nome Vincenzo abita invece altrove e precisamente in via Crucicella di Rosarno ed è coniugato con Maduli Teresa. La mia situazione è diventata disperata a seguito del suicidio, o presunto tale, di mio marito Antonio, con il quale io mantenevo un rapporto affettivo di notevole intensità, a dispetto dei litigi che negli ultimi tempi erano diventati sempre più fiequenti. Ed invero Antonio era abituato a bere e non so se facesse uso di sostanze stupefacenti; certo, se lo faceva, non aveva difficoltà a reperirle dato il contesto familiare di appartenenza, del quale dirò qui a breve. Con l’abitudine all’alcool negli ultimi tempi si era anche aggiunta una relazione extraconiugale che mio marito intratteneva con una donna polacca di nome Alla, della quale sconosco il cognome ma della cui effige fotografica sono in possesso. So che mio marito si era perfino interessato per farle ottenere il permesso di soggiorno, cosa che effettivamente era avvenuta. Anche mio suocero, Cacciola Domenico aveva modo di rimproverare mio marito sia  perché dedito all ‘alcool, sia successivamente per la sua relazione extraconiugale. Ricordo che in una occasione gli disse: ” se questo fosse avvenuto a tua sorella, tuo cognato Peppe sarebbe ancora vivo?”, alludendo ad una ovvia, in quel contesto familiare, reazione alla lesione all’onore della famiglia Cacciola. La sera in cui marito si è suicidato ed esattamente il 13.11.2005, nulla nel suo comportamento lasciava presagire quel suo gesto. Devo precisare che mio marito soffriva di depressione, cosa che i suoi familiare si ostinavano a negare, e vi sono anche diversi ricoveri di lui, a riprova di quanto io affermo. Durante i momenti di crisi, in cui egli si dava anche all’alcool, avveniva che mi picchiasse o che minacciasse che si suicidasse. In quelle circostanze io cercava di essere vicinissima a lui e nei momenti in cui si allontanava di casa, lo perseguitavo letteralmente con il telefono, cercando di evitare che facesse sciocchezze.

Voglio anche aggiungere che mio marito, nelle situazioni di normalità era una persona estremamente affettuosa, che si pentiva sinceramente di quanto aveva fatto nei momenti di ebbrezza. [….D.lo po circa una mezz’ora è salito a casa mia mio suocero per comunicarmi minacciosamente che mio marito era morto. Disse precisamente: “SE MIO FIGLIO SI È AMMZZATO PER TE IO AMMAZZO TE”, facendo anche spaventare le bambine presenti. Io non sono andata a vedere mio marito e così le altre donne di casa. Che io sappia mio suocero e gli altri figli maschi sono andati a vederlo soltanto nell ‘immediatezza del fatto e poi non più. Da quel momento la situazione per me è diventata assolutamente invivibile. Non potevo uscire liberamente di casa, ma solo chiedendo il permesso ai miei suoceri o ai miei cognati che mi avrebbero dovuto accompagnarmi; non mi si rivolgeva la parola; venivo impedita anche di curarmi, nel senso che erano loro a stabilire quale medico e come avrebbero dovuto visitarmi. Il giorno in cui ho tentato il suicidio, ed esattamente l’l1 febbraio 2006, ero arrivata al culmine della disperazione, in quanto mio suocera mi aveva sottratto le bambine che avrebbe dovuto portare con se alla cerimonia di fidanzamento di mio cognato Gregorio Cacciola. Rimasta sola in casa, ho scritto una lettera in cui sommariamente spiegavo i motivi del mio gesto e dicevo ai Cacciola che cosi (ossia con il mio suicidio) non si avrebbero certo vendicati della perdita del loro congiunto; dopo di che, mi allontanavo di casa a bordo di una Fiat Panda verde di proprietà di mio cognato Vincenzo e della quale ho trovato le chiavi già inserite nel quadro. Con detta autovettura ho raggiunto i1 lungomare di San Ferdinando, lì ho parcheggiata  sul ciglio della strada e sono poi scesa verso il mare, portando con me il mio cellulare le chiavi dell’auto che avevo sistemato nelle tasche del piumino nero che indossavo. Ricordo di aver lasciato l’autovettura aperta, nel senso non chiusa a chiave. Giunta sulla battigia, mi liberavo del piumino e mi lanciavo in acqua. Non riuscito tuttavia a realizzare il mio proposito e ritornavo a riva infreddolita e in stato quasi confusionale. Riuscivo, spingendo sui gomiti, a riportarmi sul posto in cui avevo abbandonato il piumino ed utilizzavo il mio cellulare per chiamare mio fratello Angelo, al quale comunicavo semplicemente di stare male.

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