Storia della ‘ndrangheta- Parte 3

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ARTICOLO ESTRATTO DAL 6° NUMERO DI TERRA DI MEZZO

Nel precedente numero si è riportata la sentenza emessa dal Tribunale di Palmi in data 12/02/1985 e poi divenuta definitiva nel 1994, con la quale veniva riconosciuta l’esistenza a Rosarno di un’associazione a delinquere di tipo mafioso, denominata “cosca Pesce”. Sentenza definita dagli stessi inquirenti come “storica”, cos’ come, ed ancor più, può definirsi una pietra miliare nella storia giudiziaria della Piana, e non solo, il cosiddetto “Processo delle tre Province”.

Così come riportato nell’Ordinanza di Custodia Cautelare emessa dal G.i.p. di Reggio Calabria nell’ambito dell’Operazione denominata “Mediterraneo” e che nei mesi scorsi ha portato all’arresto di 54 persone ritenute affiliate alla cosca di ndrangheta dei Molè di Gioia Tauro, “nel processo, inizialmente instaurato nei confronti di Pesce Giuseppe-classe 1923 (deceduto nelle more del giudizio il 29/5/1992) + 138 e ridottosi in appello al giudizio nei confronti di Pesce Giuseppe-classe 1954 + 50, sono contestate due associazioni per delinquere di cui una caratterizzata da una articolata struttura federativa risultante dalla aggregazione di più cosche locali, donde il nome di processo alla “mafia delle tre province” col quale è comunemente indicato il complesso giudizio, fondato sulla collaborazione di Giuseppe Scriva -già ‘ndranghetista di rango in Rosarno- iniziata nel settembre 1983, definito in primo e secondo grado negli anni ’86-’87, interamente annullato dalla Corte di Cassazione nell’anno 1988, ripetuto in primo e secondo grado negli anni ’93-’96 fino al giudicato del 3/4/97”. In detta storica pronuncia veniva riconosciuto e confermato il primato della cosca Piromalli di Gioia Tauro nella federazione di gruppi mafiosi riconosciuta come esistente nella piana gioiese. Ma detto processo non riguarda solamente i casati di ndrangheta di Gioia Tauro e  Rosarno, infatti “risultano, altresì,contestati plurimi omicidi iscritti nella faida di Cittanova tra gli Albanese-Raso-Gullace da un lato e i Facchineri dall’altro, e altri omicidi compresi nella faida di Taurianova tra i Martino-Avignone da un lato e i Monteleone dall’altro, tutti risalenti agli anni settanta “.

La portata storica del processo delle tre province è da rinvenire nella circostanza che un’imputazione (il capo n.74) raccoglie, in un’unica associazione per delinquere (federazione di cosche) di stampo mafioso, numerose persone appartenenti alle principali cosche operanti nella piana di Gioia Tauro ovvero in provincia di Reggio Calabria, e nelle altre due province all’epoca esistenti in Calabria (originariamente, invero, figuravano tra gli imputati, esponenti della famiglia Mancuso -tra cui Luigi e Giuseppe- di Limbadi, in provincia di Catanzaro, ed esponenti della criminalità di Cosenza come Pino Francesco, poi assolti).

In particolare erano accusati di far parte di tale “federazione di cosche” tra gli altri esponenti dei Pesce (Giuseppe CI.1923, Giuseppe c1.1954, Antonino, Rocco e Vincenzo), dei Bellocco (Umberto, Giulio, Giuseppe, Mario, Rocco, Michele, Carmelo e Gregorio), ed altri, tra i quali degni di menzione Piromalli Giuseppe (c1.1921), Crea Teodoro di Rizziconi, Avignone Giuseppe di Taurianova, Mammoliti Saverio e Rugolo Domenico di Castellace, tutti già imputati nel processo dei “sessanta”, ai quali è attribuito il reato di: “associazione per delinquere di stampo mafioso (art.416 bis) per essersi riuniti in un’associazione di stampo mafioso finalizzata verso l’obiettivo della consumazione di omicidi di componenti di cosche avverse allo scopo di potenziare l’egemonia mafiosa della cosca di appartenenza dedita alla consumazione di sequestri di persona a scopo estorsivo ed estorsioni nonché per alcuni di essi allo spaccio ed al traffico di sostanze stupefacenti, come contestato in rubrica. In Rosarno ed altre località fino al 5/4/83”.

 

Lunga e travagliata è stata la vicenda giudiziaria dello storico procedimento, nel giudizio di primo grado, infatti, la Corte d’assise di Palmi, “rilevando l’omessa indicazione nell’imputazione degli elementi di ‘fatto” idonei ad individuare l’associazione di tipo mafioso, di cui ricorreva solo il richiamo normativo all’art.416 bis C.P., ritenne contestata in concreto l’associazione per delinquere cosiddetta semplice (art.416 C.P.) e, per questo titolo, e non per associazione mafiosa, condannò molti degli imputati.

Il giudice d’appello, pur confutando la qualificazione dei reati contestati come associazioni criminali

comuni e non di stampo mafioso, in mancanza di appello del Procuratore generale sul punto, ha

confermato quasi tutte le condanne del giudice di primo grado per i fatti associativi nella ritenuta ipotesi semplice.

 

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