Storia della ‘ndrangheta nella Piana – Parte 2

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ARTICOLO ESTRATTO DAL 5° NUMERO DI TERRA DI MEZZO, MENSILE CARTACEO DI ZMEDIA. SETTEMBRE 2014

Nel precedente numero, riportando alcuni passaggi presenti nell’Ordinanza di Custodia Cautelare emessa dal G.i.p. di Reggio Calabria nell’ambito dell’Operazione denominata “Mediterraneo” e che ha portato all’arresto di 54 persone ritenute affiliate alla cosca di ndrangheta dei Molè diGioia Tauro, abbiamo iniziato un excursus sulla storia della ndrangheta nella Piana, effettuato mediante le sentenze citate nella predetta ordinanza. In particolare era stato oggetto di disamina la sentenza del 23 luglio 1979, ritenuta una pietra miliare sulla nascita e l’esistenza delle cosche nella Piana.

Un’altra sentenza ritenuta dagli inquirenti “storica” per ricostruire “vita e miracoli” dei casati di ndrangheta è quella emessa dal Tribunale di Palmi in data in data 12/02/1985 confermata in appello in data 19/11/1993 e divenuta irrevocabile col rigetto dei ricorsi per cassazione il 7/4/1994.

Secondo quanto riportato nell’ordinanza la portata “storica” di detta pronuncia è da rinvenire nella circostanza che per la prima volta viene riconosciuta dall’Autorità Giudiziaria l’esistenza a Rosarno di una associazione per delinquere di tipo mafioso, denominata “cosca Pesce” avente per scopo connaturato e programmato (nuova mafia) l’esecuzione di estorsioni, danneggiamenti mediante impiego di sostanze esplosive, detenzione e porto di esplosivi, di armi e munizioni.

Così come statuito in sentenza dai giudice dell’epoca, Giuseppe Pesce (classe 1923) era il capo ella cosca “che costituisce un sodalizio criminale saldissimo, basato su rapporti di parentela e proiettato verso la costante realizzazione, attraverso l’uso della propria considerevole forza intimidatoria, di un programma illecito comprendente una sistematica pratica estorsiva ai danni del ceto produttivo di Rosarno, l’accaparramento delle più lucrose attività economiche della zona ed il personale arricchimento dei singoli affiliati”. Oltre allo storico capo, un ruolo principale in seno alla consorteria lo avevano altresì i nipoti Giuseppe Pesce (classe 1954), Antonino Pesce (classe 1953), Rocco Pesce (classe 1957), e Vincenzo Pesce (classe 1952).

Con la sentenza del 1985 il Tribunale di Palmi, nonostante Pesce Giuseppe fosse stato assolto in precedenza dalla Corte di Appello di Reggio Calabria rimarca  “senza ovviamente alcuna pretesa di scalfire la forza di un giudicato, … che i documenti acquisiti e le stesse dichiarazioni rese dal Pesce nel presente procedimento smentiscono in punto di fatto le asserzioni della corte d’appello e confermano invece quelle del giudice di primo grado. Ed infatti -continua la sentenza- dalla nota informativa del nucleo di polizia tributaria di Reggio Calabria datata 30 marzo 1981 … risulta: 1) che effettivamente stretti congiunti dell’imputato eseguirono lavori per il costruendo porto di Gioia Tauro e che, in particolare, il di lui figlio (evidente “lapsus” dell’estensore, trattandosi del nipote, come emerge nella pagina successiva e nell’intero corpo della sentenza in esame: Antonino incassò dal consorzio Cogitau oltre 53 milioni nel 1976, oltre 62 milioni nel 1977, circa 35 milioni nel 1979 e più di 71 milioni nel 1980; 2) che l’imputato (ci si riferisce sempre a Giuseppe Pesce del 1923) non è affatto impossidente, avendo intestato alla moglie Giuseppina Spagnolo un palazzo di ben 4 piani, di cui 3 fuori terra, adibiti ad abitazione (altro che una casetta di due vani!). Entrambe le circostanze d’altra parte già si trovano evidenziate nel rapporto dei carabinieri che ha dato origine al presente processo e quella inerente alla proprietà del palazzo è stata addirittura confermata dal Pesce nell’interrogatorio reso al P.M. a febbraio 1981. .. Con questo non si rimette in discussione un giudizio ormai esaurito, ma si dimostra come, a dispetto di contrarie e fallaci apparenze, pur formalmente consacrate, il Pesce abbia spinto le proprie mire d’imposizione mafioso anche nel redditizio settore dei trasporti e dei subappalti e come ne abbia ricavato cospicue fortune” (v. pp. 16-17 della sentenza “de qua” nell’interessante confutazione delle ragioni dell’assoluzione di Pesce Giuseppe nel precedente processo cosiddetto “dei sessanta”).”

Nel prossimo numero la sentenza  emessa dalla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria in data 12/2/96, il c.d. processo alla “mafia delle tre province”.

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