Peppino, l’antimafia nel nome. 35 anni fa veniva ucciso Valarioti, “l’Impastato” calabrese

21

L’antimafia vera, a Rosarno, ha il nome ed il volto di Giuseppe Valarioti. Oggi sono 35 anni da quando l’esponente di punta del Pci rosarnese – consigliere comunale e anche segretario cittadino – è stato ammazzato. Un omicidio crudo, crudele, barbaro e politico, consumato all’ingresso di un locale, a Nicotera, nel giorno in cui si festeggiava la vittoria del Pci ad un’importante tornata elettorale. Un commando lo ha trucidato, facendolo precipitare moribondo tra le braccia di Peppino Lavorato, colui che sarà autentico sindaco antindrangheta tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000 quando lottare contro i clan ti esponeva al rischio di morte e non ti regalava copertine e posticce passerelle autocelebrative. Valarioti è stato l’Impastato calabrese, quei proiettili nel petto hanno stroncato la vita di un uomo, ma ne hanno esaltato le idee e la capacità di elevarlo a simbolo, ad un riferimento da cui trarre ispirazione. Trentacinque anni dopo esiste una piazza a Rosarno dedicata a lui, un premio (purtroppo celebrato ancora con discontinuità) ed una storica sezione del Pci. La vera sfida, per i rosarnesi, è riuscire a considerare Valarioti una figura condivisa nel Pantheon delle varie culture civiche e politiche cittadine. Valarioti è stato tutto quello che la città di Rosarno può fieramente offrire: la dignità e l’orgoglio del mondo contadino, la forza e la tenacia di chi vuol diventare qualcuno, e la preziosa identità culturale di Medma. Era figlio di piccoli agricoltori onesti, amava la terra, si laureò giovanissimo al magistero ed amava insegnare e coltivava il sogno dell’archeologia e della valorizzazione del glorioso passato magnogreco di Rosarno. Ma credeva, soprattutto, nei valori della legalità, e questa stella polare lo orientò verso un comunismo intransigente, e a denunciare la ‘ndrangheta che si stava evolvendo, trasformandosi da “coppola e lupara” ad holding che gestisce il traffico di droga ma soprattutto il mercato agrumicolo drogato dalle truffe ai fondi europei. Queste denunce, urlate dai palchi, gli hanno messo sul petto il mirino della mafia. Il processo, lungo e farraginoso, non ha prodotto una verità giudiziaria, ma assoluzioni per esponenti di spicco del clan Pesce. Nessuna condanna, ma la gloria postuma di campione dell’antimafia, e faro per i suoi “epigoni” del Partito comunista locale. Quel “cumpagni m’ammazzaru”, biascicato mentre spirava in quella sera di giugno tra le braccia di Peppe Lavorato, è stato un testamento, un lascito valoriale per chi è venuto dopo. E il dopo si chiama, soprattutto, Peppino Lavorato “il sindaco” intransigente ma amato e rieletto dai rosarnesi. Dopo 35 anni la questione vera non è se il ricordo di Valarioti è vivido, quanto piuttosto se c’è una comunità, o una parte di essa, che ha voglia e coraggio di raccoglierne il testimone.

Domenico Mammola

Articolo precedente San Ferdinando, due arresti per sfruttamento della prostituzione
Articolo successivoCane si butta sotto il bus per salvare la vita alla padrona cieca